2 maggio 2014

Raissa torna a casa e questa volta è per sempre. Le restano pochi minuti per salutare le amiche. Insieme in questi anni sono ripartite da zero. Si sono aiutate, reinventate, tenute compagnia, passate lavori, date consigli. Ci sono dieci anni di vita straniera in quest’ultimo abbraccio e pochi minuti prima che l’autobus parta. Raissa lascia l’Italia perché adesso è la sua la famiglia da badare. A casa c’è una madre anziana e un nipotino appena nato. E un Paese, l’Ucraina, sull’orlo della guerra civile.

C’è un rito silenzioso che viene celebrato ogni domenica nelle periferie delle città italiane. Un racconto che parla di lontananza, nostalgia, partenze e ritorni. Appare solo guardando dove nessuno vede più: parcheggi, stazioni sperdute, giardini di periferia, aree di servizio. È un viaggio che dura due giorni e attraversa tre frontiere. È la rotta delle badanti. Un viavai incessante di bus e mezzi di fortuna che trasportano persone e cose. Chi acquista questo biglietto vive ai margini della società e di rado ha meno di una laurea. Da qualche settimana a questa parte però qualcosa è cambiato. Molte donne ucraine si stanno licenziando e il loro è un tragitto di sola andata, perché sulla regione incombe lo spettro di un conflitto armato.

Secondo le stime ufficiali l’Italia è il Paese europeo che accoglie il più alto numero di immigranti ucraini in Europa, oltre 250mila, un numero che raddoppia se si considerano gli illegali.

“TORNARE NON HA SENSO”

Raissa ha 60 anni. Ne ha passati sei a Mantova, poi ha trovato impiego in Liguria, prima a Genova e poi a Chiavari. «Quando guardo la tv mi sento male – dice Raissa – Sono due mesi che non penso ad altro. Qualche tempo ho preso coraggio e ho deciso. Il mio posto adesso è là, accanto ai miei cari». Viene da Khmelnitsky, centro agricolo da 300mila abitanti della regione della Podolia, nell’ovest del Paese, la zona da cui vengono quasi tutte le migranti impiegate nell’assistenza agli anziani in Italia. Interi paesi abitati da uomini. «Loro non trovano lavoro qui. Sono i nostri custodi. Dopo la caduta del muro abbiamo perso tutto. Da un giorno all’altro hanno smesso di pagare gli stipendi e la moneta è colata a picco. La miseria, hai presente? Gorbaciov è stato il primo disastro della mia vita. Il secondo è Viktor Janukovich, l’amico di Putin che ci ha rubato tutto, un’altra volta».

La base di partenza è piazza della Vittoria, nel centro di Genova. Ecco perché l’arco di trionfo è un luogo di ritrovo per immigrati ucraini, gli unici a darsi appuntamento qui oltre alle coppiette di liceali. Le corse regolari, organizzate da Eurolines, sono ogni due domeniche. Poi ci sono i Ducato a sei posti, con cui la contrattazione è privata. Il prezzo non cambia, il pullman di linea è un po’ più comodo ma più lento. In dodici ore, alla fine della prima notte, è ancora in Italia, perché c’è una passeggera da raccogliere in ogni città. Torino, Milano, Brescia, Vicenza, Venezia. E pure le persone che persone che arrivano da un altro pullman, partito da Napoli. Lo scambio avviene all’Autogrill. Gli autisti sono due per ogni mezzo e si tengono i posti in fondo per sdraiarsi nelle quattro ore di riposo. È gente che fa avanti e indietro due volte a settimana.

La prima tappa è Ovada, il centro commerciale Bennet. La pausa prevista è di dieci minuti, per andare alla toilette e sgranchirsi le gambe. In realtà il non detto che tutti sanno è che si fa la spesa. Dopo più di mezz’ora dal piazzale i primi rientrano carichi di cibo e alcol, che prima di uscire dall’Europa passa attraverso costosi dazi. Nella stiva viaggiano le rimesse. Spedire un pacco costa un euro e cinquanta al chilo, a prescindere dal contenuto. «Vivo a Firenze – spiega Valentina 63 anni – Guadagno 12mila euro in un anno, 5mila li mando a casa. Prima in merce, adesso che la grivna (la moneta locale, ndr) è colata a picco invio solo denaro».

Nella sua vita precedente Valentina era un ingegnere civile. È originaria di Sumy, città al confine nordorientale con la Russia, a 300 chilometri dalla polveriera di Sloviansk, a poco più di 400 da Donestsk, dove la diplomazia tace e ora sono le armi a parlare. «Noi siamo un popolo pacifico e non siamo divisi su base etnica, perché siamo tutti mischiati e un tempo vivevamo in pace, come una sola nazione. Non faccio altri che pregare perché torni la pace. Questa non è una guerra civile».

È una frase che ritorna spesso. «Non ci sono separatisti ucraini ma soldati russi che hanno attraversato il confine di nascosto. L’esistenza di conflitto interno è una mistificazione. Questa guerra ha un solo responsabile e si chiama Vladimir Putin». Nelly ha 47 anni, è vedova e vive Milano con il nuovo compagno italiano. È laureata in economia e prima di arrivare in Italia era responsabile marketing di una grande azienda. «Non tornerei indietro, del resto non potrei. Sono grata all’Italia e sono fiera di aver fato studiare i miei figli. Uno è un ufficiale di carriera, l’altra è laureata in farmacia. Loro devono fare un’altra vita. Una generazione che si sacrifica è abbastanza».

“MIA MADRE NON AVEVA ALTRA SCELTA”

Durante la prima notte il bus passa attraverso l’Austria e poi attraversa l’Ungheria. A fine mattinata si ferma alla frontiera. La tensione è palpabile, l’abitudine alla frontiera non si fa mai, nemmeno quando hai il permesso di soggiorno. I doganieri si accorgono dei due estranei, oltre al passaporto vogliono vedere anche il tesserino da giornalisti. Dopo un’ora di controlli e una perquisizione ai bagagli, all’autista viene consentito di oltrepassare il cartello della salvezza: “Welcome in Ukraine”. Dal fondo scattano applausi e urla di gioia. Davanti c’è un’altra giornata di viaggio. Uzhgorod, terra di frontiera, i Carpazi. Molti scendono a Leopoli, detta la “Parigi dell’Est” per via di un centro storico grazioso che rimane però lontano da questa rotta, che tocca sempre e solo periferie. Leopoli è anche il cuore del nazionalismo ucraino. E da un’officina polverosa, di qui si passa per un piccolo tagliando al motore, saltano fuori casse piene di giubbotti antiproiettile: «Prendeteli, è un regalo. Voi siete giornalisti italiani, siete nostri fratelli. Fate attenzione».

La strada che porta fuori dalla città – in direzione di Rivne, capitale degli occupatori nazisti nella Seconda guerra mondiale, e Zhytomyr, ex complesso industrial militare Urss – è stata costruita per gli Europei di calcio del 2012: «Ora è piena di buche perché non interessa più a nessuno». All’alba finalmente compaiono i palazzoni di Kiev, per tutti la capitale che ha cacciato il tiranno. Maidan è ancora occupata dalle barricate e dalle tende, occupate dai “comitati di autodifesa”. È ancora fresco l’odore della rivoluzione e il ricordo di oltre cento manifestanti freddati dai cecchini. Il viaggio di Valentina prosegue a Est, verso l’inferno. «Che Dio vi assista. Siete coraggiosi. Siamo di fronte all’abisso, testimoniate al mondo il nostro dramma».

La rivoluzione è sempre tre quarti fantasia e per un quarto realtà. Lo diceva Bakunin. E quel quarto, è quello che non è pranzo di gala né fucilazioni, che è fatto di singole vite alla ricerca della felicità e dell’incontro di queste vite, spesso, con delusioni brucianti.

Per gli ucraini, la rivoluzione del 2014 non è stata solo la cacciata di un presidente fantoccio e corrotto, Yanukovich, e l’inizio di una guerra civile tra est e ovest del paese. C’è stato anche l’esperimento sociale di Maidan, a Kiev, una piazza che è sopravvissuta agli spari, come Tahrir al Cairo, che è diventata centro e simbolo di un’ Ucraina diversa, una comune sgangherata, ma piena di speranza, di divise improvvisate, famiglie allargate e di musica suonata su pianoforti in mezzo ai copertoni delle barricate.

C’è stata, e c’è ancora, la rivoluzione di migliaia di donne che lasciano a Kiev come a Odessa le loro famiglie per accudire le nostre, a migliaia di chilometri di distanza. E dei loro figli, che sognano l’Europa e si arrangiano senza madri.

Ogni domenica, un bus attraversa l’Europa per riportare a casa le donne ucraine con i loro borsoni e le loro vite impacchettate. Sono le loro vite, a scorrere con i chilometri dal finestrino: i figli e i mariti lasciati a casa, i genitori che muoiono, i soldi che non bastano mai. Sono le loro voci, nel documentario, quelle di Olga e Irina, che accompagnano il viaggiatore. Sino a Kiev, al centro della rivoluzione, Maidan.

A parlare sono sempre e solo loro: soldati di eserciti improvvisati, pianisti che suonano tra le macerie l’inno della rivoluzione, giovani uomini e donne che si accorgono già del tradimento di ciò per cui altri hanno combattuto e sono morti.

Vediamo lo stupore negli occhi delle famiglie che varcano il cancello della lussuosa residenza invernale di Yanukovich, in un tripudio di selfie. La poesia della musica che viola il silenzio dei palazzi del potere. Ma vediamo anche un processo sommario a due omosessuali, il caos di falangi di “guardiani della rivoluzione” e “comitati di autodifesa” che si autointestano l’ordine di un paese nel caos.

Il poliziotto che ha abbandonato la divisa corrotta, la ragazza che sogna un lavoro e una vita “normale”, i profughi della Crimea che non vogliono morire russi.

Tutto questo ce lo raccontano Olga, Kyrilo, Liubov, Valentin. Nomi e volti umani, persone alla ricerca di una felicità che non ha niente a che fare con Merkel o Putin o Poroshenko. E ci ricordano che ad Est come a Sud della nostra Italia, ci sono persone pronte a morire, per guadagnarsi un pezzo di quell’ Europa che hanno sognato nei loro tre quarti di fantasia, al suono dell’inno alla gioia.

“LA NOSTRA CANZONE È ETERNA,
CI PROTEGGE DAI PROIETTILI”

OLGA

Olga vive a Milano, dove lavora come badante. Era un ingegnere in Ucraina prima di partire per l’Italia tre anni fa. È preoccupata dalla guerra, teme per la sua famiglia, ma non può ritornare a casa perché è clandestina.

LIUBOV

Liubov studia all’Università di Chernivtsi, nell’Ovest dell’Ucraina. Per lei la vera rivoluzione sarebbe trovare un lavoro e vivere una vita normale.

VALENTIN

Valentin era un poliziotto. Era stanco di vivere in un Paese corrotto, così un giorno ha deciso di lasciare la divisa e unirsi alla rivoluzione.

KYRYLO

Kyrylo Kostiukowsky è un compositore e pianista di strada. Dopo l’inizio delle sommosse ha iniziato a vivere nei palazzi occupati dalle milizie ed è diventato uno dei simboli di Euromaidan.

“QUESTO DOCUMENTARIO PARLA DI RIVOLUZIONI PERSONALI E COLLETTIVE
CHE HANNO PERSO LA STRADA DI CASA”

MARCO GRASSO

Marco Grasso è un giornalista che si occupa di inchieste per Il Secolo XIX. Quando l’Ucraina è scesa in piazza ha scoperto di avere un pezzo di famiglia in un altro angolo di mondo.

DAVIDE PAMBIANCHI

Davide Pambianchi, giornalista visivo. Ha praticato i graffiti e studiato la biologia, è diventato un fotografo che si guadagna da vivere con la cronaca. Ha fondato Freaklance, visual media crew.

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